Catia Viscomi entrò in coma dopo il cesareo: la Procura di Catanzaro fa appello contro l’assoluzione di un medico. Segue il caso l’Avvocato Incardona. I dettagli.
“Nonostante le reiterate e allarmanti segnalazioni del personale medico sullo stato di salute della loro collega anestesista”, che avrebbe disattivato prima e durante l’intervento di taglio cesareo d’urgenza gli allarmi di rilevazione dei parametri vitali, “il dirigente medico con incarico di struttura complessa, e quindi con potere organizzativo e decisionale, si è rifiutato di compiere un atto di ufficio finalizzato ad inibire parzialmente o totalmente l’esercizio delle funzioni alla stessa anestesista”. I sostituti procuratori Stefania Paparazzo e Debora Rizza ritengono illogica la motivazione con cui il gup del Tribunale di Catanzaro Pietro Carè il 24 settembre 2020 ha deciso di assolvere uno dei due medici, Mario Verre, direttore del dipartimento interaziendale di Terapia Intensiva nell’Azienda Ospedaliera Pugliese- Ciacco, dalle accuse di lesioni personali colpose e rifiuto di atti di ufficio, sul caso di Catia Viscomi, l’oncologa in coma da sette anni dopo aver dato alla luce il 17 maggio 2014 con un parto cesareo il suo primo figlio nel nosocomio di Catanzaro. “Ha preferito rimanere inerme spettatore, senza attivare i poteri attribuitigli per impedire le condotte dell’anestetista e l’evento drammatico, assolutamente prevedibile ed evitabile, laddove fossero state attivate le dovute precauzioni e i necessari rimedi”. La Procura non ci sta all’assoluzione di Verre, che avrebbe dovuto rimuovere dal suo incarico l’anestesista, essendo a conoscenza delle sue precarie condizioni di salute psico-fisiche. Verre non si sarebbe dovuto rifiutare di proporre al Comitato di dipartimento misure correttive necessarie: richiedere alla direzione sanitaria e direzione area risorse umane di sottoporre a visita la collega per stabilire l’idoneità a svolgere l’attività di medico anestesista. Un provvedimento adottato troppo tardi, il 9 giugno 2014, solo dopo quello che era accaduto a Katia Viscomi il 7 maggio 2014, ridotta in uno stato vegetativo, disponendo nei confronti dell’anestesista l’affiancamento di un tutor, il supporto psicologo e l’esonero della stessa dai turni di guardia.
La sentenza di primo grado
Il 24 settembre 2020 il gup in abbreviato aveva condannato il ginecologo Francesco Quintieri ad un anno e otto mesi di reclusione, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e beneficio condizionale della sospensione della pena mentre aveva assolto per non aver commesso il fatto il medico della Rianimazione Mario Verre (entrambi difesi dall’avvocato Enzo Ioppoli). Inoltre aveva condannato Quintieri al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede. Il pubblico ministero, al termine della requisitoria aveva, invece, invocato la condanna per entrambi a 2 anni e 8 mesi di reclusione, richiesta di condanna a cui si erano associati i difensori di parte civile Antonietta Denicolò e Giuseppe Incardona. Il gup, inoltre aveva trasmesso gli atti alla Procura di Catanzaro per le dichiarazioni rese dal teste Raffaele D’Antona al fine di valutare nei suoi confronti il reato di falsa testimonianza.
“Cartelle cliniche false e lesioni”
Secondo le ipotesi accusatorie, Quintieri, che risponde di lesioni e falso ideologico non avrebbe impedito all’anestesista in servizio (poi deceduta) la disattivazione delle apparecchiature, attestando nella cartella clinica circostanze contrarie al vero. Verre, la cui posizione si è aggravata per la richiesta formulata in aula dalla Procura di contestare all’imputato anche le lesioni personali colpose, avrebbe indebitamente rifiutato “di inibire parzialmente o totalmente l’esercizio delle funzioni alla stessa anestesista”. Entrambi a processo da quando il gip Giuseppe Perri respinse la richiesta della Procura di archiviare il caso per l’intervenuta morte dell’unica indagata, l’anestesista presente al parto, disponendo a carico della Procura un supplemento di indagini per chiarire una vicenda che appariva fin dall’inizio coperta da tante ombre. E da qui l’iscrizione nel registro di altri due indagati.
Gli appelli dei familiari
Non sono stati vani i continui appelli dei familiari della vittima che fin dall’inizio e non solo all’interno dell’aula a porte chiuse di Palazzo Ferlaino, si sono opposti alla richiesta di chiudere un caso, manifestando finanche sotto la sede della Procura, urlando giustizia per la figlia, la moglie, l’amica che da quella anestestia non si è più svegliata, così come aveva urlato giustizia, durante una fiaccolata, la comunità di Soverato, dove Katia è sempre vissuta. Tutti uniti nel pronunciare il suo nome, gridando: “Katia non mollare, non sei sola”, nella speranza che possa riaprire gli occhi e riabbracciare suo figlio.
Le dichiarazioni del marito di Katia sulla sentenza
Subito dopo la lettura del dispositivo da parte del gup Pietro Carè, Paolo Lagonia, il marito di Catia aveva rilasciato a Calabria7 una dichiarazione: “Attendiamo le motivazioni della sentenza. Un esito che rende giustizia a metà, siamo comunque soddisfatti che siano emerse delle responsabilità. Ci auguriamo che la Procura faccia appello per Verre, visto che noi come parte civile non possiamo farlo”. E la speranza si è tradotta in realtà: i magistrati hanno proposto ricorso contro un’assoluzione che ritengono basata su motivazioni illogiche.
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